Milena Boccadoro su In Genere, 24 Aprile 2024
Ogni donna è libera di scegliere se portare avanti una gravidanza, denunciare le violenze subite ed essere tutelata se decide di farlo. Di amministrare una società, di entrare in una giunta comunale. E ancora, di rivendicare la parità salariale, e di chiedere che vengano rimosse le pubblicità sessiste che la offendono.
Lo ricorda LEI È, la campagna sociale per i diritti delle donne promossa dalle associazioni femministe Lofficina, Se non ora quando? – Torino, Break The Silence Italia e Torino Città per le Donne, che hanno condiviso l’urgenza di rispondere pubblicamente agli attacchi di chi vuole rimettere in discussione i diritti faticosamente conquistati dalle donne negli anni. Diritti che è necessario conoscere e difendere affinché “ciò che è normale oggi potrebbe non esserlo domani”.
La campagna è articolata intorno a dodici punti diversi: dal diritto di scegliere se portare avanti una gravidanza alla parità salariale, dal diritto di interrompere una relazione e di denunciare la violenza maschile a quello di essere tutelate, fino alla consapevolezza dei propri diritti e del proprio valore.
Dodici nuclei, ognuno dei quali si ricollega a una legge o a un diritto da conoscere e difendere, che hanno tutti al centro la libertà di scelta e l’autodeterminazione delle donne. Tra gli obiettivi al centro di Lei è c’è infatti anche quello di sollevare l’attenzione su luoghi comuni e stereotipi sui ruoli, che, nel mondo del lavoro, in politica e nelle relazioni affettive, limitano la libertà delle donne e alimentano la violenza di genere.
Per realizzare la campagna, le quattro associazioni hanno ottenuto il sostegno dell’agenzia creativa di comunicazione Hub09, che l’ha realizzata, e della Fondazione Pubblicità Progresso, che ha concesso a Lei è il patrocinio e la possibilità di accedere gratuitamente agli spazi pubblicitari riservati alle campagne sociali.
Dalla metà di gennaio 2024, la campagna è apparsa sui quotidiani, nelle metropolitane e sulle fiancate dei mezzi pubblici di molte città italiane, e anche sui social: Lei è ha infatti una pagina sia su Instagram che su Facebook, e presto sarà trasmessa da alcune televisioni nazionali.
Ognuno dei dodici punti al centro della campagna ricorda leggi, trattati, e regolamenti per la piena realizzazione delle donne, ma ancora non del tutto applicati, o ancora sotto attacco.
A partire dalla legge 194 del 1978, che in Italia sancisce il diritto a interrompere volontariamente un gravidanza. “Una legge migliorabile” riconoscono le promotrici della campagna “ma allo stesso tempo un punto fermo rispetto a cui non fare passi indietro”.
Per questo, hanno voluto ricordare che, in base all’articolo 5 della legge, è la donna a decidere se portare avanti o meno una gravidanza, e che deve poterlo fare senza condizionamenti o pressioni. E che l’interruzione di gravidanza deve avvenire in sicurezza, in tempi certi e senza creare disagio a chi decide di intraprenderla.
Tuttavia, questo diritto di scelta che recentemente è entrato nella costituzione francese, nel nostro paese è ostacolato in molteplici modi, come sintetizzato dalla guida realizzata nell’ambito della campagna #IVGsenzaMA su iniziativa di una rete di associazioni pro-scelta italiane. E non solo per le difficoltà legate all’obiezione di coscienza dei medici (che raggiunge il 100% in regioni come l’Abruzzo), ma anche per proposte come quella di introdurre l’obbligo di ascoltare il battito fetale durante la visita che precede l’interruzione di gravidanza avanzata dai movimenti per la vita nel maggio 2023 e che è stata definita contraria all’etica e alla scienza dall’Ordine dei Medici di Torino.
Sempre in Piemonte, la giunta di Centro Destra con il Fondo Vita Nascente sta finanziando i movimenti anti-aborto. Ed è appena diventata legge la norma che prevede la presenza di associazioni antiabortiste nei consultori. Un attacco dopo l’altro alla libertà di scelta delle donne.
Al centro di altri tre punti della campagna c’è il contrasto alla violenza di genere.
Ogni donna è “libera di essere se stessa”, ricorda la Convenzione di Istanbul del 2011. Una carta fondamentale che ha riconosciuto la violenza di genere, in tutte le sue forme, come violazione dei diritti umani. Il trattato è stato recepito dall’Italia nel 2013. Data la sua natura vincolante, dopo la ratifica sono state approvate leggi nazionali che hanno modificato sia il codice penale italiano che quello di procedura penale.
Se lo slogan Lei è libera di dire basta fa riferimento alla legge 119 del 2013 sul femminicidio, Lei è libera di denunciare rimanda a quella meglio conosciuta come Codice Rosso (legge 69/2019), modificata a novembre 2023, e che prevede ora nuovi reati, un aggravamento delle pene e corsie “di emergenza” per le indagini. Ma senza un incremento del personale degli uffici giudiziari, del numero dei pubblici ministeri, è difficile fare le verifiche necessarie per capire la pericolosità della situazione denunciata e attuare le misure di tutela. E si sa che dopo una denuncia il rischio per le donne aumenta. Se molto è stato fatto sul piano giuridico, sono più di venti le leggi in materia di violenza di genere nel nostro ordinamento, poco si è investito sulla prevenzione. Non sono state stanziate risorse per la formazione delle forze dell’ordine, di chi raccoglie le denunce, di chi istruisce i processi.
“Come le sono stati tolti gli slip? Che tipo di pantaloni indossava? Perché non ha urlato, non si è divincolata?” – sono alcune delle domande poste dalla avvocata della difesa durante il processo contro Ciro Grillo, Francesco Corsiglia, Vittorio Lauria ed Edoardo Capitta, accusati di violenza sessuale di gruppo. Un caso emblematico di quanto ancora si colpevolizzi le vittime. La campagna comprende anche il diritto delle donne ad autodeterminarsi nel lavoro, ricordando che Lei è consapevole del proprio valore: nonostante la parità salariale sia un diritto sancito da una legge, la 162 del 2021, e dall’articolo 37 della Costituzione, le donne guadagnano ancora meno degli uomini – in media 7.922 euro l’anno, secondo l’ultimo Global gender Gap report del World Economic Forum. Differenza confermata dai dati dell’Inps sui dipendenti nel settore privato. Le laureate, secondo una ricerca della Università Cattolica, a 5 anni dalla laurea guadagnano il 21 per cento in meno dei colleghi. E questo è possibile perché i datori di lavoro sono tenuti, per legge, solo a riconoscere il minimo contrattuale.
Certo, la legge Golfo-Mosca ha introdotto premialità per le aziende che presentano la certificazione di genere e dimostrano di garantire alle donne le stesse opportunità: superminimi, premi di produzione, avanzamenti carriera. Ma poche ancora lo fanno.
I dati Istat del 2023 ci dicono che l’occupazione femminile in Italia è del 52,8 per cento, 18 punti meno della media europea, come sappiamo dalle analisi Eurostat. Anche perché sulle donne ricade ancora gran parte del peso della cura a cui dedicano in media quasi 5 ore al giorno, meno di due gli uomini. Un peso che spinge molte a preferire il part time o lasciare il lavoro dopo il primo figlio.
Lavora part time il 30 per cento delle donne, contro il 14 per cento degli uomini. E ad alimentare il gap salariale ci sono anche gli stereotipi sociali che spingono le donne verso i settori con una retribuzione più bassa.
Infine, la campagna Lei è vuole parlare alle giovani, ricordando loro che oggi possono entrare nel consiglio di amministrazione di una grande impresa, grazie alla legge Golfo-Mosca che dal 2011 ha imposto un’equa rappresentanza dei due generi. Nei primi dieci anni di applicazione della legge, la percentuale di donne ai vertici delle società è salita dal 7 al 36%, ma ce ne sono ancora troppo poche.
È allora importante tenere a mente la strada percorsa e quella ancora da fare per abbattere pregiudizi, stereotipi, disuguaglianze e discriminazioni che ancora limitano troppo la libertà e la vita delle donne.