25 Gennaio 2025
Quanto se la rideva Virginia Woolf – SARA DE SIMONE
Delle grandi scrittrici si raccontano solo solitudine e infelicità. Conosciamo i dolori ma non le gioie, le feste, i libri divertenti che riempirono le loro vite
Conosciamo tutti i dettagli del suicidio di Anne Sexton, e la posizione in cui si uccise Sylvia Plath, e l’ora e il luogo e il modo in cui Marina Cvetaeva si tolse la vita, e la notte in cui decise di lasciarci Alejandra Pizarnik, e se vogliamo vedere il punto esatto in cui Antonia Pozzi assunse una dose eccessiva di barbiturici non dovremo che digitare su google: “luogo suicidio Antonia Pozzi”.
Nessun particolare ci viene risparmiato, quando si tratta dell’infelicità delle donne.
Ma della loro felicità, cosa sappiamo? Cosa conosciamo dei loro incontri fortunati, delle loro conquiste e soddisfazioni, dei loro entusiasmi, scoperte, invenzioni, delle loro risate? Dei loro giorni felici?
Davvero le loro vite furono solo genio e tormento? Davvero possiamo considerare questi loro ritratti, che ci sono arrivati deformati da una smorfia di dolore, come dei ritratti fedeli? Davvero una vita si legge a partire dal finale? E se il finale è tragico, anche la vita – tutta – deve diventare tragica? E perché delle scrittrici – più che degli scrittori – piace tanto raccontare la sorte tragica? C’è qualcosa di tipicamente femminile in questi destini luttuosi? O è piuttosto l’aspetto tragico a “femminilizzare” queste figure? A renderle compiutamente donne?
Sì, esiste un gusto particolare, speciale, nel racconto del malessere delle donne. Un gusto prevalentemente maschile, ma non solo, che si sostanzia e nutre ed esalta nello scrupoloso elenco delle loro disavventure, contraddizioni, maledizioni.
Lo stesso gusto che per anni ci ha fatto avere come indiscusse eroine di riferimento ineffabili tisiche, incontentabili autoavvelenatrici o disperate frequentatrici di binari del treno.
Beninteso, parliamo di grandi capolavori della letteratura, che tali rimangono. Ma quante sono le protagoniste della nostra storia letteraria che fanno una brutta fine?
Lo stesso vale per le parabole biografiche di un gran numero di scrittrici, riscritte e tragicamente “eroinizzate”, con le loro tubercolosi implacabili, i loro nervi fragili, i loro forni accesi e le loro fiale di sonnifero.
Se ci soffermiamo a leggere le descrizioni che negli anni sono state fatte di molte delle autrici che amiamo c’è da trasecolare.
«Una bambina stupita e spaurita, attonita e balbettante… con un’ingenuità che stringe il cuore»: così un noto critico italiano delinea negli anni 80 il ritratto di una delle più grandi scrittrici del Novecento, Katherine Mansfield. «Virginia Woolf: la delicata e implacabile indagatrice d’anime femminili», sentenzia un altro critico dalle colonne di una storica rivista letteraria. «Autrice di parecchi romanzi, forse la più delicata per una sua sensitività tutta intima, fremente e donnesca», gli fa eco un altro studioso. Delicate, frementi, donnesche, fragili, spaurite, bambine…
Roba vecchia, direte, scritta decenni fa. Ma è solo l’anno scorso quando, per celebrare il compleanno della scrittrice, una popolare rivista italiana titola «Virginia Woolf: leggere i suoi libri per capire la sua vita tormentata», e sottotitola «142 anni fa nasceva la scrittrice e femminista illuminata. Nei suoi libri i traumi e il dolore di una vita», incentrando tutto l’articolo sui lutti e gli abusi subiti dalla scrittrice, e su una minuziosa descrizione del suo suicidio.
E pensare che basterebbe consultare le fonti, studiare i documenti, anche solo leggere i romanzi, per smettere di riproporre queste narrazioni false e svilenti.
Leggere, per esempio, le parole di chi conobbe Woolf in vita. Come quelle della romanziera Elizabeth Bowen, che dell’amica racconta: «Virginia era una creatura di riso e di movimento. Aveva lo straordinario potere di trasmettere il suo divertimento. La sua risata era contagiosa, esagerata, quasi come quella di un bambino»; o quelle dello scrittore David Garnett, che dichiara: «I nipoti la adoravano, così veniva spesso presa da parte. Dall’angolo delle mura del giardino dove si erano nascosti, arrivava sempre il suo chiaro scoppio di risa»; o quelle di Madge Garland, direttrice di Vogue negli anni Venti, testimone divertita dell’incontro fra Woolf e Sylvia Townsend Warner, autrice di un romanzo sulle streghe. «Come fa a sapere tante cose sulle streghe?» – domanda Virginia – «Perché lo sono – risponde Sylvia. «Per un attimo – confessa Vaughan – pensai che farle incontrare fosse stato un tragico errore, ma Virginia, dopo un breve sconcerto, scoppiò improvvisamente a ridere, uno dei suoi caratteristici scoppi di risa, e quell’attimo d’imbarazzo fu rapidamente superato».
Chi conobbe Virginia Woolf sapeva che ridere (e ridere in quel certo modo, entusiasta, libero, palpitante) era un suo tratto distintivo. Così come lo erano le continue battute, gli scherzi, i travestimenti, i giochi. Basta leggere le sue lettere alla sorella, agli amici o all’amata Vita per averne un saggio più che esaustivo. E che dire di opere dall’ironia irresistibile come Orlando e Flush? Quanto ai suoi diari, sono tutt’altro che privi di felicità.
«I miei giorni sono pieni di quei grappoli allettanti che costituiscono la felicità», scrive nel ’25, quando ha appena pubblicato La signora Dalloway. O ancora, nel ’26, mentre si gode Monk’s House: «Sono incredibilmente felice in campagna – uno stato d’animo che, se non avessi in antipatia le virgolette, metterei fra virgolette, per mostrare che è uno stato d’animo che basta a sé stesso». E nel ’30: «Direi che un campione della mia vita, scelto a caso tra la massa, mi fa meravigliare della mia stessa felicità. Direi che poche donne sono più felici – non che io sia costante nei miei umori; ma sento di aver gustato un bel sorso alla coppa della vita, e ci trovo molto champagne dentro».
Chi da anni continua a svuotare questa coppa, perché è bello, perché fa comodo raccontare le scrittrici che soffrono, la smetta. E legga, studi. Quanto a noi, lettrici e lettori veri: in alto i calici. C’è da brindare ai giorni felici di Virginia Woolf. E di tutte le altre.