Centro Studi Piero Gobetti – Francesca Romana Guarnieri
Il primo maggio resta una festa centrale, che è stata fondamentale in passato non solo per celebrare le lotte operaie e sindacali ma anche per costruire una coscienza di classe e che è, oggi ancora, occasione di confronto e di istanza per i diritti di lavoratori e lavoratrici. In particolare, queste ultime sembrano avere molto di più da rivendicare in un paese che, secondo il Global Gender Gap Report del 2022, si trova al 114º posto sui 146 presi in esame per ciò che concerne la partecipazione delle donne al mondo del lavoro.
Nonostante un quadro di disposizioni (italiane ed euro-unitarie) apparentemente complete ed efficaci, infatti, l’effettiva attuazione ed applicazione del principio di parità di trattamento tra uomini e donne in ambito lavorativo in Italia nella pratica continua ad incontrare una serie di ostacoli che determinano un differenziale di genere – in particolare per quanto attiene alla parità retributiva – che non può essere giustificato, che non deve più essere tollerato e che peraltro è stato accentuato dal periodo di emergenza pandemica.
Inoltre il gender gap è stato altresì incrementato dalla progressiva precarizzazione del lavoro che ha finito per rendere più lento ma anche più necessario quel processo di realizzazione di politiche capaci di contrastare le disuguaglianze di genere nella società (il c.d. gender mainstreaming).
La discriminazione retributiva e i pregiudizi, spesso inconsci, nelle strutture retributive sono tra le cause profonde del divario di genere nel contesto europeo e, segnatamente, in quello italiano.
A tali ragioni si aggiungono poi altri fattori tutti connessi tra loro e derivanti da stereotipi di genere che non sono mai stati realmente superati e che vedono le donne tuttora uniche interpreti (o comunque indiscusse protagoniste) dei compiti di cura ed assistenza nella vita familiare (dagli ultimi dati ISTAT disponibili è emerso che ancora oggi in Italia se si somma lavoro pagato e non pagato ogni giorno le donne lavorano mediamente un’ora in più rispetto agli uomini). Solo attraverso la redistribuzione del lavoro di cura e del lavoro domestico all’interno dei nuclei familiari nonché attraverso una nuova concezione dei ruoli tradizionalmente assegnati agli uomini e alle donne all’interno della società e della famiglia si tutelano le lavoratrici dalle forme di ricatto e di discriminazione in ambito lavorativo. Residua poi in Italia un differenziale di genere apparentemente privo di spiegazione che deve essere affrontato.
È interessante notare che nel sistema italiano normalmente la discriminazione retributiva non ha ad oggetto i minimi tabellari (che sono dovuti in applicazione del contratto collettivo nazionale di lavoro concretamente applicato da parte del datore di lavoro nei confronti dei propri dipendenti o comunque richiamato nel contratto di assunzione e che è, in ogni caso, il parametro di applicazione dell’art. 36Cost. che stabilisce che “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”) ma riguarda invece tutti i bonus, le indennità e gli altri elementi retributivi che rendono più difficile non solo la dimostrazione ma anche la stessa comprensione della violazione del diritto alla parità salariale da parte di chi ne è vittima.
Inoltre, nonostante la dirompenza del fenomeno della disparità di trattamento in materia salariale e quantunque vi sia un quadro normativo euro-unitario e nazionale già molto sviluppato in questo ambito, il contenzioso giudiziario su questo tema è davvero molto ridotto; se un diritto non viene azionato in modo sistematico è come se esso di fatto non fosse riconosciuto dall’ordinamento: c’è dunque un problema su cui è necessario intervenire.
Tre sono, ad avviso di chi scrive, i provvedimenti legislativi assolutamente imprescindibili e improcrastinabili in materia di promozione della cultura paritaria in ambito lavorativo e necessari a garantire l’attuazione del diritto fondamentale alla parità retributiva, misure senza le quali il principio di parità di trattamento rimarrà sempre incompiuto.
In primo luogo è opportuno intervenire, con misure stringenti e comunque vincolanti, sulla trasparenza nei sistemi retributivi: le lavoratrici non dispongono dei dati disgregati per genere delle aziende nonché dei dati relativi ai livelli salariali delle categorie di donne e uomini che svolgono lo stesso lavoro o un lavoro di pari valore. Una maggiore trasparenza permetterebbe, infatti, di far emergere i pregiudizi e i trattamenti meno favorevoli nelle strutture salariali delle imprese e quindi di riconoscere le discriminazioni che altrimenti le lavoratrici non sono nemmeno in grado di percepire. Il secondo intervento indifferibile riguarda l’estensione del congedo di paternità obbligatorio per un lasso temporale pari rispetto a quello di maternità: ciò consentirebbe di porre i lavoratori padri o potenziali padri sul medesimo piano di vulnerabilità, di fronte al datore di lavoro, delle loro colleghe e, quindi, di annullare le circostanze che rendono le donne oggetto di discriminazioni in ragione della maternità affinché questa non sia più un enorme ostacolo per la realizzazione delle loro aspirazioni professionali. Infine, il legislatore non potrà non intensificare gli strumenti di contrasto all’abbandono del lavoro da parte delle donne in particolare nei primi anni di vita del figlio e nei periodi di congedo, affrontando così una tematica di grande importanza con un consistente incremento dei servizi per l’infanzia (e analoghe considerazioni valgono per il welfare legato alla disabilità e alla terza età). Tutto ciò è tanto più importante se si pensa che il tasso di occupazione femminile ha peraltro anche una correlazione con il tasso di fecondità, tema che parrebbe essere al centro dell’agenda politica di un paese in forte calo demografico.
Alla luce di queste osservazioni si auspica che la festa dei lavoratori sia quest’anno davvero un’occasione di riflessione sulle conseguenze economiche della discriminazione e della segregazione di genere nonché sull’importanza dell’effettività rispetto all’applicazione dei divieti di discriminazione e del principio di parità di trattamento tra lavoratori e lavoratrici.
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