Ladynomics – Giovanna Badalassi – 10 gennaio 2023
Tempi strani, care lettrici, talmente tanto che un articolo sulla mobilità delle donne, che avremmo giurato roba da rare secchione come solo noi sappiamo essere, ha invece raccolto parecchio interesse. E quindi, siccome ci piace ritornare sul luogo del delitto, alziamo la posta e vediamo se vi piace anche questo, che indaga sul perché ci sono le differenze di genere anche nella mobilità. Per dare una risposta argomentata tocca quindi andare indietro nel tempo, andando a toccare gli albori della rivoluzione industriale e le interconnessioni tra sviluppo economico e la vita delle donne e degli uomini nei territori. Sì, perché se andiamo a vedere bene, l’organizzazione della mobilità di oggi nelle città è il risultato di una serie di strategie di urbanizzazione e di pianificazione territoriale che risale alla rivoluzione industriale.
Prima infatti l’economia era soprattutto di carattere rurale nelle campagne e di servizi e commercio nelle città: la mobilità come la intendiamo oggi praticamente non esisteva ed era molto più ridotta quanto a distanze e legata soprattutto a esigenze di trasporti di merci.
La maggior parte delle persone lavorava presso la propria abitazione, sia chi era dedito all’attività agricola, sia chi operava nelle città nei settori del commercio o dei servizi, per i quali la casa era comunque prossima alla “bottega” o al posto di lavoro.
Basta osservare la conformazione dei centri storici delle città italiane ed europee per avere ancora oggi una testimonianza di tale modo di vivere.
In un simile contesto si può quindi dire che il mondo lavorativo femminile e quello maschile erano sì caratterizzati da una segregazione lavorativa (lavoro retribuito e lavoro di cura non retribuito), ma erano abbastanza vicini in termini spaziali.
Secondo gli studi di un esperto americano, Martin Wachs (1) nel 19° secolo tale organizzazione della società e degli spazi è invece stata drasticamente modificata, proprio a causa della crescita del capitalismo e della rivoluzione industriale.
Il nuovo sistema di produzione ha infatti richiesto fabbriche, una concentrazione di forza lavoro in poco spazio, in edifici separati dal luogo di residenza, spesso in punti strategici, presso una ferrovia o una strada.
La delocalizzazione del lavoro retribuito ha dunque determinato la specializzazione territoriale dei moderni assetti urbanistici, in zone residenziali e zone produttive, venendo a determinare di conseguenza i presupposti per la nascita del sistema pubblico dei trasporti e, in parallelo, l’affermarsi dell’auto quale mezzo privato principale di mobilità.
Dal punto di vista del genere tale sviluppo dell’economia e quindi delle città ha però favorito il formarsi delle “sfere separate” allontanando il lavoro retribuito degli uomini rispetto a quello non retribuito delle donne anche in una dimensione spaziale.
Il ruolo degli uomini nella società, votato alla produzione economica e alla vita pubblica si è dunque separato anch’esso nei tempi e negli spazi dal ruolo delle donne, impegnate nella cura dei figli e nelle attività domestiche in aree della città residenziali.
“A partire dalla seconda metà del 19° secolo la casa è diventata qualcosa di più di una unità economica di produzione, ma è diventata gradualmente un simbolo dell’ideale di benessere e di moralità, che attribuiva conforto materiale e status sociale. Soprattutto, la casa era diventata il dominio delle donne, molto più che per gli uomini”.
Lo sviluppo tecnologico del trasporto urbano, sia pubblico che privato, ha quindi poi permesso di localizzare i posti di lavoro a sempre maggiore distanza da casa: si è quindi verificato quello che gli studiosi chiamano “spatial mismatch” o “spatial entrapment”: si, le donne sono rimaste letteralmente intrappolate.
Nel 20° secolo c’è stato invece un altro cambiamento epocale: le donne sono entrate in massa nel mercato del lavoro retribuito, però si sono trovate di fronte ad uno sviluppo urbano del territorio che, tenendo così lontani i luoghi del lavoro e quelli della cura, ne ha pesantemente influenzato non solo i processi di conciliazione vita-lavoro, ma anche le opportunità di scelte professionali, molto spesso condizionate dalle distanze più per le donne che per gli uomini. Ma oramai la frittata era fatta, e si sono dovute adattare, certo con sacrifici e rinunce enormi.
E arriviamo all’oggi. La crisi pandemica e il ricorso massivo allo smart working sta ancora cambiando le carte in tavola, obbligandoci a porci nuove e inaspettate domande sul ruolo della casa come posto di lavoro, sulla rilocalizzazione di diversi servizi nelle città e sull’impatto che tutto questo può avere sulla qualità di vita e sulla possibilità di crescita (uguale? diseguale?) di donne e uomini. Con tutti i cambiamenti spesso stravolgenti che ha portato, occorre però ricordare che lo smart working interessa tuttora solo una parte dei lavoratori: attualmente sono infatti 3,6 milioni i lavoratori e lavoratrici in smart working: certo, sono tanti, ma pur sempre il 15,6% dei 23 milioni di occupati in Italia: gli altri 19,4 milioni devono ancora vedersela con gli spostamenti casa-lavoro.
Insomma, alla fine siamo sempre lì, a rincorrere i cambiamenti e a cercare di capire come affrontarli senza rimanerne travolti.
Unica certezza è, comunque e sempre, che capire le cause delle differenze di genere in tutti gli aspetti della nostra vita, anche le più insospettabili come queste della mobilità, è un percorso di conoscenza indispensabile se si vuole raggiungere davvero la parità.