Elle 19 febbraio 2024 – Adelaide Barigozzi
La libera scelta di interrompere una gravidanza in Italia è sempre più ostacolata da carenza di informazioni, burocrazia, obiezione di coscienza. Nel frattempo, però, le donne si sono organizzate
L’ultima bordata più eclatante è arrivata addirittura dalla Camera dove, durante un recente convegno del Centro Studi Machiavelli, è stato detto che “l’aborto non è un diritto accettabile, nemmeno in caso di stupro”. Ma la legge 194 sull’interruzione volontaria di gravidanza (Ivg) oltre a essere sotto attacco da parte della destra e dai movimenti pro-vita, fa fatica a essere anche solo rispettata così com’è, rivelandosi un drammatico percorso a ostacoli per la maggior parte delle donne, che già si trovano in situazioni di fragilità.
Lo testimoniano le segnalazioni che ogni giorno arrivano alla chat di Pro-choice, rete autogestita che offre sostegno per un aborto libero e informato. C’è S., cui hanno rifiutato l’Ivg perché non aveva l’impegnativa, sebbene per legge la richiesta possa farla qualsiasi medico. Oppure C., che si è sentita negare da un ginecologo obiettore pure le cure post aborto, nonostante la 194 non preveda questa possibilità. O ancora G., che è stata rimbalzata da un ospedale dove non c’era posto e non sa dove sbattere la testa. Un lungo elenco di difficoltà da cui le attiviste dell’associazione sono partite per redigere una guida all’Ivg, la prima in Italia (si scarica gratis qui), dal titolo La tua scelta, zero ostacoli, frutto di una sinergia tra esperte legali e ginecologhe che spiegano tutto quello che c’è da sapere per orientarsi in un cammino irto di insidie. Uno strumento utile che è anche uno sconvolgente elenco di inadempienze, discriminazioni e abusi.
Sebbene di rado se ne parli, tuttora in Italia chi affronta una Ivg, tra assenza di informazioni, obiezione di coscienza e depistaggi, fatica anche solo a capire dove trovare il servizio, mentre la finestra temporale (entro le 9 settimane per l’aborto farmacologico, 12 per quello chirurgico) inesorabilmente si restringe. Un’odissea che punisce la libera scelta delle donne, nella quale non è difficile ravvisare un altro aspetto della cultura patriarcale di cui tanto si sta parlando. “Abbiamo selezionato i problemi più frequenti emersi dalla nostra chat, così come da altre fonti come Laiga, che associa ginecologi non obiettori, e Obiezione respinta, portale che mappa online, in base alle segnalazioni delle utenti, l’applicazione della 194 in consultori e farmacie”, spiega Eleonora Cirant, antropologa, coordinatrice editoriale del progetto e attivista di Pro-choice. “Le nostre esperte legali hanno studiato tutti i casi controllando i riferimenti di legge, mentre il gruppo di lavoro medico ha verificato gli aspetti della salute”. La guida include anche modelli di lettere per segnalare i disservizi.
Dopo una prima descrizione del percorso “come dovrebbe essere”, il vademecum si immerge nella dura realtà, quella di un Paese con il 64,6 per cento di ginecologi obiettori (secondo gli ultimi dati del ministero della Salute, risalenti al 2020), dove occorre difendersi per vedere rispettato un proprio diritto. “A volte, sono gli stessi operatori a mostrare di non conoscere la legge, non si sa se per malafede o sciatteria: sta di fatto che in questi anni si è diffusa molta ignoranza”, osserva Cirant. Da tempo, l’Organizzazione mondiale della sanità ha prodotto precise linee guida sull’Ivg, ma l’Italia non le rispetta su diversi punti, e il primo è l’informazione, denuncia Pro-choice. “Manca un sito istituzionale dedicato, che è parte integrante del diritto all’accesso, inoltre sempre secondo l’Oms tutte le Ivg sono urgenti, perché prima si fanno e più sono sicure per la salute delle donne, eppure da noi la legge impone una settimana di attesa per un eventuale ripensamento o, in alternativa, un certificato d’urgenza che il medico può anche rifiutarsi di rilasciare. Tranne che per alcune rare zone in cui le cose funzionano, l’unica prospettiva è arrangiarsi”, dice Cirant.
Agli intoppi legittimi si aggiungono quelli illegali o perlomeno pretestuosi. Tra gli abusi più frequenti smascherati dalla guida, rifiutare un nulla osta del medico all’Ivg perché in forma telematica (che invece è valida), trincerarsi dietro a una generica “obiezione di coscienza della struttura”, di fatto abbandonando la donna al suo destino, quando invece è solo il medico a poter essere obiettore, mentre il consultorio è tenuto a farsi carico in ogni caso della paziente trovandole posto in un altro centro. Ma questo è solo l’inizio. Racconta Cirant: “Ho appena raccolto la testimonianza di una ragazza che è stata costretta a tornare tre volte in ospedale perché durante l’ecografia non si distingueva il battito fetale, senza il quale non le davano il documento necessario all’Ivg. E un’altra donna in Emilia ha vissuto un’esperienza analoga perché non si vedeva la camera gestazionale, che è una fase dell’embrione, quando in realtà si può ricorrere ai farmaci abortivi già alla quinta settimana”. Segnalazioni di questo tipo a oggi sono rare, ma indicano un clima preoccupante: proprio in questi mesi un movimento pro-vita ha lanciato una raccolta firme chiamata “Un cuore che batte” per una proposta di legge che introdurrebbe l’obbligo per il medico di far ascoltare il battito fetale alle donne che intendono abortire, sulla scia di analoghe iniziative negli Usa e in Ungheria. “È un abuso non solo dei diritti umani e della dignità della donna, ma anche rispetto a qualsiasi evidenza scientifica”, chiarisce la ginecologa Anna Uglietti, a lungo responsabile del Servizio ospedaliero per la 194 alla Clinica Mangiagalli di Milano e coordinatrice della consulenza medica per la guida di Pro-choice. “Viene fatta passare un’informazione falsa: in un embrione di 8 millimetri non c’è un cuore che batte, ma semplicemente l’ecografo trasforma in suono un’onda prodotta dall’effetto doppler. Sono procedure di natura ideologica, sbandierate da chi pensa che le donne siano stupide e inconsapevoli e che le loro scelte si possano influenzare”.
Secondo il report “Mai dati” a cura di Chiara Lalli e Sonia Montegiove, che supplisce alla mancanza di numeri ufficiali aggiornati, in Italia 72 ospedali hanno oltre l’80 per cento di obiettori di coscienza e 22 il 100 per cento, tra ginecologi, anestesisti e infermieri. “Il dato nazionale dell’obiezione è del 60 per cento: dal 2019 è in leggera diminuzione grazie alle nuove generazioni di medici, ma con grandi differenze a seconda delle regioni e specie al Sud il servizio è molto carente, inoltre se nelle grandi strutture il carico di lavoro può venire meglio redistribuito, nelle piccole i non obiettori rischiano il burnout”, osserva Uglietti.
In un panorama simile, l’essere nata nella zona “sbagliata” del Paese comporta un surplus di sofferenza. E ai disagi causati da una gestione opaca dell’obiezione di coscienza, si aggiungono le difficoltà d’accesso all’aborto farmacologico, opzione meno invasiva e più economica, che consente la deospedalizzazione ed è praticata senza problemi da oltre 30 anni in diversi Paesi europei a iniziare dalla Francia. “Dal 2020 per l’Ivg medico – cioè con la somministrazione di mifepristone e, 24-28 ore dopo, di misoprostolo – non è più necessario il day hospital e la procedura è semplice, ma manca la formazione e, soprattutto, viene opposto spesso un ostacolo burocratico: per attivare il servizio occorre aggiornare il tariffario secondo le linee di indirizzo del ministero, e solo pochissime regioni lo hanno fatto”, spiega Cirant. In Lombardia, per esempio, secondo un’indagine periodica svolta dalla consigliera regionale del Pd Laura Bocci, la percentuale complessiva del ricorso al farmacologico rispetto a quello chirurgico nel 2021 è stata del 35 per cento, mentre Toscana ed Emilia-Romagna, le più efficienti, superano il 50 per cento.
“Vogliamo dare alle donne consapevolezza dei loro diritti. E sapere di poter contrastare richieste ingiustificate cambia molto le cose”, dice Laura Onofri, coordinatrice dei consulenti legali della guida di Pro-choice. Tra i consigli offerti, in alcuni casi c’è quello di chiamare i carabinieri. “Serve come deterrente”, spiega. “L’importante sarebbe poi denunciare i disservizi all’opinione pubblica, perciò abbiamo predisposto le lettere. Una volta abortito, però, la maggior parte vuole solo dimenticare perché oltre alla difficile esperienza personale, si subisce anche una stigmatizzazione, e tutti questi ostacoli ne fanno parte”. Non pochi intoppi, però, dipendono anche dal fatto che la legge 194 ha 45 anni e si sentono. Dal 1978, quando è nata, molte cose sono cambiate, eppure c’è una certa resistenza a intervenire. “È giusto chiedere dei miglioramenti, ma c’è il timore di perdere tutto, tanto più che già non è bene applicata”, osserva Uglietti.
La novità è che, nel frattempo, le donne si sono organizzate da sole e le nuove tecnologie le stanno aiutando. “Prima c’erano solo servizi di aiuto telefonico, oggi si sono diffuse chat, gruppi social e piattaforme autogestite”, dice Cirant. Un’accelerata l’ha data la pandemia, quando in tante hanno iniziato a chiedere aiuto online ad associazioni come Women on Web, che spedisce i farmaci abortivi alle donne dei Paesi dove non sono disponibili. Del resto, i nuovi media consentono di comunicare in modo rapido e sicuro, garantendo l’anonimato. La chat di Pro-choice nel momento in cui scriviamo conta 172 membri attivi ed è aperta solo a donne che devono abortire o lo hanno fatto. “Riceviamo circa 3.500 messaggi al mese”, dice Cirant. “Ogni tanto, succede anche che un’intrusa del movimento per la vita tenti di infiltrarsi, ma di solito ce ne accorgiamo subito”, dice Cirant. Mentre parliamo, mi informa, sono online 10 utenti. Una chiede: “Con il farmacologico, quali sono i rischi?”. Ora, grazie alla guida, avrà delle risposte in più.
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