in.Genere 1 marzo 2023 – Livia Ricciardi
La certificazione di genere introdotta dalla legge 162, rappresenta un’opportunità da non sprecare per trasformare in meglio il mondo del lavoro. Ecco come imprese e organizzazioni possono ottenerla, in base a quali parametri e quante sono le certificazioni rilasciate finora
Il sistema della certificazione della parità di genere è stato previsto e finanziato dal Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) con 10 milioni di euro e istituito dalla legge 162 del 2021 che ne ha attribuito la titolarità al Dipartimento delle Pari opportunità della Presidenza del Consiglio dei ministri. Tappa fondamentale in questo processo è stata la definizione degli standard per ottenere la certificazione dall’UNI (l’ente italiano di normazione, ndr), sottoposti a consultazione pubblica e recepiti con Decreto del 29 aprile 2022 della ministra per le Pari opportunità, con affidamento ad Accredia (associazione senza scopo di lucro e unico ente di accreditamento in Italia, ndr) della selezione degli enti certificatori.
È stato poi istituito il tavolo di lavoro permanente, previsto dalla stessa legge 162, presso il Dipartimento Pari opportunità, con compiti di approfondimento, elaborazione di proposte e monitoraggio, cui partecipano rappresentanti dei ministeri interessati, la consigliera nazionale di parità, esperte ed esperti sul tema e rappresentanti dei sindacati nazionali (Cgil, Cisl e Uil). Infine, sono stati pubblicati il decreto che disciplina lo sgravio contributivo per le aziende certificate, che non potrà superare l’1% dei contributi dovuti, entro il limite massimo di 50.000 euro annui per azienda, e l’avviso agli enti certificatori per poter fruire di agevolazioni per il processo di certificazione delle piccole e medie imprese.
Per le aziende certificate sono anche previsti un punteggio premiale per la valutazione di proposte progettuali a carico di Fondi europei, e agevolazioni negli appalti pubblici. Ma il vantaggio di ottenere la certificazione è anche, se non soprattutto, di tipo reputazione.
Quante imprese sono certificate
Prima della fine del 2022, nel pieno rispetto dei tempi stabiliti per legge, erano stati portati a termine gli adempimenti tecnici che hanno consentito in tempi anticipati l’avvio dell’operatività di questo importante progetto, con l’obiettivo dell’ottenimento della certificazione da parte di almeno 800 imprese, di cui almeno 450 di dimensioni micro, piccole e medie entro giugno 2026.
A oggi sono 21 gli organismi di certificazione accreditati e 203 le certificazioni rilasciate, numeri importanti, se si pensa alla natura totalmente volontaria della certificazione. Tuttavia, non è stato pubblicato né un elenco di tali aziende, né una loro classificazione per fascia di dimensione o per ripartizione geografica, e non è stato effettuato un passaggio con il tavolo di lavoro, finora convocato per la sola riunione di insediamento.
Gli indicatori per la certificazione
Gli indicatori individuati dal Documento UNI (i cosiddetti key performance indicator) sono suddivisi in sei aree: cultura e strategia, governance, processi di risorse umane, opportunità di crescita e inclusione delle donne in azienda, equità remunerativa per genere, tutela della genitorialità e conciliazione vita-lavoro.
In coerenza con la tassonomia Istat, sono state identificate 4 fasce relative alle dimensioni delle organizzazioni, con applicazione della totalità degli indicatori solo alla fascia 3 (media organizzazione) e 4 (grande organizzazione). Per ciascuna area sono stati identificati specifici indicatori di performance, sia qualitativi che quantitativi, per un totale di 33, a ognuno dei quali è associato un punteggio che viene ponderato per il peso dell’area di valutazione: è previsto il raggiungimento del punteggio minimo complessivo del 60% per determinare l’accesso alla certificazione da parte dell’organizzazione. La certificazione ha validità triennale ed è soggetta a monitoraggio annuale.
Dato il numero elevato di indicatori, è difficile darne qui una descrizione anche sintetica. Si può però osservare che il lavoro svolto da UNI è senz’altro di qualità, essendo state prese in considerazione tutte le diverse dimensioni utili a misurare il grado di maturità dell’organizzazione in tema di parità di genere, ed essendo stata ognuna di esse sezionata in indicatori specifici per cogliere un’ampia gamma di caratteristiche e comportamenti aziendali – dalla presenza di un presidio e di un budget dedicati alle tematiche della parità di genere, al funzionamento dei processi di gestione e sviluppo delle risorse umane, dalla percentuale di donne con qualifica di dirigente o responsabili di unità organizzative alla percentuale di promozioni di donne su base annua, dalla quota di donne con remunerazione variabile ai servizi dedicati al post maternità/paternità e all’utilizzo dei congedi.
Un metodo da migliorare
Tuttavia, il mancato confronto con le organizzazioni sindacali (e datoriali) e il mancato coinvolgimento del tavolo di lavoro permanente che è stato insediato a indicatori già approvati, determinano alcune incongruenze nella loro individuazione e valutazione, oltre a criticità di metodo.
Iniziamo da queste ultime, notando che il procedimento individuato per adottare il piano strategico aziendale di adeguamento non tiene conto del ruolo della contrattazione collettiva e non individua alcuna forma di coinvolgimento delle rappresentanze aziendali, affidandosi al solo rapporto fra azienda ed ente certificatore. Considerando che cambiamenti quali quelli richiesti dal sistema di certificazione della parità di genere richiedono un approccio dall’interno per essere effettivi e duraturi, si tratta di una disattenzione che può avere conseguenze di rilievo, motivo per cui come componenti Cgil, Cisl, Uil del tavolo permanente abbiamo sollecitato correttivi e integrazioni.
Ad esempio, abbiamo chiesto di prevedere come prerequisito esplicito l’applicazione, da parte dell’azienda, di un contratto collettivo nazionale di lavoro stipulato dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative e di includere passaggi con le rappresentanze interne nel percorso di adeguamento aziendale, immaginando un punteggio aggiuntivo in caso di piano adottato con accordo sindacale. Infine, in coerenza con la richiesta di valorizzare le relazioni sindacali, abbiamo chiesto che nel tavolo di lavoro permanente siano necessariamente coinvolte le organizzazioni datoriali.
Conciliazione vita-lavoro
Abbiamo presentato anche osservazioni nel merito di alcuni singoli indicatori. Una delle perplessità emerse riguarda quelli relativi alle misure di conciliazione vita-lavoro, centrati quasi esclusivamente sui periodi di maternità-paternità (fruizione congedi, rientro), mentre il tema della conciliazione è più ampio e andrebbe affrontato con una organizzazione del lavoro flessibile che venga incontro alle esigenze di lavoratrici e lavoratori in tutte le fasi di vita, e sostituito con quello della condivisione dei compiti di cura. Senza questo passaggio le donne, vittime di una cultura del lavoro che spesso formalmente non opera discriminazioni, ma che introietta dinamiche indirettamente discriminatorie, continueranno a tirarsi indietro su straordinari, trasferte, incarichi extra, e continueranno a chiedere il part time, subendo come conseguenza le discriminazioni salariali, paradossalmente in piena “legittimità”.
Andrebbero pertanto previste, come parte del piano strategico, misure di flessibilità oraria (banca ore, lavoro agile, ecc) introdotte con accordi aziendali, con attento monitoraggio circa l’utilizzo paritario tra lavoratori e lavoratrici.
Parità retributiva e quote del 30%
Per quanto riguarda gli indicatori relativi alla parità remunerativa, il documento UNI, pur prevedendo un indicatore specifico per la remunerazione variabile, esclude dalla misurazione della differenza retributiva le corresponsioni legate a maggiori o diverse prestazioni (es. straordinario, indennità e rimborsi vari, benefit). Tuttavia, come appena osservato, è proprio lì che si genera buona parte della differenza salariale, quindi anche queste voci andrebbero prese in considerazione.
Tema delicatissimo, infine, è quello del rapporto tra aziende che richiedono la certificazione e rispetto della clausola del 30% per le assunzioni di donne e giovani negli appalti del Pnrr. È noto il dibattito relativo alle difficoltà che, in alcuni settori, in primis l’edilizia, le aziende incontrerebbero nel rispetto della clausola, motivo per cui, non a caso, la normativa consente deroghe motivate. Senza qui voler entrare nel merito della complessa questione, vale la pena sottolineare che, almeno per le aziende coinvolte in un processo di certificazione, un ruolo della rappresentanza sindacale interna e della contrattazione collettiva sarebbe importante per valutare l’eventuale richiesta di deroga come legittima oppure pretestuosa o, quanto meno, basata su convinzioni infondate.
Alcune precisazioni sulla premialità
Abbiamo detto all’inizio,che per le aziende che hanno ottenuto la certificazione sono previste, oltre ad uno sgravio contributivo e un punteggio premiale per la valutazione di proposte progettuali a carico di Fondi europei, agevolazioni negli appalti pubblici. Riguardo a queso punto occorre precisare che lo schema di decreto legislativo sul nuovo codice degli appalti, attualmente all’esame delle competenti commissioni parlamentari, apporta due modifiche al vigente codice degli appalti (D. Lgs. 50/2016), attenuando moltissimo la portata del riferimento alla certificazione di parità, perché:
- viene eliminata la previsione che le amministrazioni aggiudicatrici indichino nel bando la certificazione della parità di genere quale criterio premiale negli appalti pubblici (art.95, comma 13 del D. Lgs. 50/2016, come modificato dall’art. 34, comma 2, D.L. 36/2022) e sostituita con due previsioni: la richiesta delle stazioni appaltanti agli operatori economici di garantire le pari opportunità (art. 102 del nuovo testo) e la possibilità per le stazioni appaltanti di prevedere nei bandi, come requisiti necessari o premiali, meccanismi e strumenti idonei a realizzare le pari opportunità (art. 61 del nuovo testo);
- viene stabilito che sia la stazione appaltante a dover individuare, tra i marchi e le certificazioni che danno diritto all’agevolazione della riduzione della garanzia fideiusssoria (identificati in apposito allegato) quelli più pertinenti rispetto all’affidamento concreto, mentre la attuale normativa stabilisce che per le aziende certificate vi sia la automatica riduzione del 30% della garanzia fideiussoria (art. 93, c. 7, D. Lgs. 50/2016, modificato dall’art. 34, c. 1, DL 36/2022).
In sostanza, se il testo sarà confermato, il riferimento diretto alla certificazione della parità di genere sarebbe rimpiazzato con un più generico riferimento alle pari opportunità, senza indicazione di alcun criterio. Inoltre diventerebbe eventuale il riferimento alla stessa certificazione per ottenere la riduzione della garanzia fideiussoria. I sindacati Cgil, Cisl, Uil hanno denunciato questa scelta, che considera “la parità di genere come un tema burocratico e non come una necessità per far ripartire con maggiore sostenibilità e maggiore equità la crescita del Paese”.
L’introduzione in Italia del sistema di certificazione di parità è una grande opportunità per entrare dentro criteri e procedure seguiti per definire percorsi di carriera e retribuzioni e renderli più trasparenti ed equi. Pertanto sarebbe importante rendere più efficaci alcuni indicatori, coinvolgere appieno il sindacato a livello aziendale, nonché facilitare la conoscenza di percorsi e meccanismi del sistema, convocando il tavolo di lavoro permanente e pubblicizzando i primi risultati.
Nota di redazione: segnaliamo che è in uscita proprio in questi giorni il nuovo bando che consentirà a piccole e medie imprese e microimprese di effettuare gratuitamente l’iter per chiedere la certificazione per la parità di genere.
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