Blog Il Fatto Quotidiano – 4 aprile 2025 – Laura Onofri
Due nuovi femminicidi di giovani ragazze in queste ultime ore hanno colpito profondamente l’opinione pubblica. Perché alcuni femminicidi scuotono le nostre coscienze più di altri? Per tante ragioni: la giovane età delle due ragazze, le modalità quasi identiche, l’ambiente culturale in cui vivevano, l’università frequentata da entrambe. Ma soprattutto il movente: avevano respinto la ossessiva, assillante e prepotente intromissione nella loro vita di due ragazzi che sono stati i loro assassini e non erano, o non erano più, legate a loro da una relazione.
Dall’analisi dei femminicidi del 2024 eseguita dall’Uil risulta che le vittime sono in prevalenza donne adulte, in particolare nella fascia di età 31-50 anni, circa il 50%, mentre in quella fra i 21 e i 30 anni la percentuale è del 16%.
Questo dato però deve essere letto pensando che la maggior parte dei femminicidi avviene o all’interno di una convivenza, durata magari parecchi anni con episodi, a volte gravi, di violenza, o dopo una separazione non accettata dal partner, quindi con dinamiche e situazioni molto diverse rispetto ai femminicidi di giovani donne. Quello che infatti colpisce in questi casi è che spesso queste ragazze non avessero mai dimostrato interesse per il loro persecutore, come nel caso di Sara Campanella, o che avessero avuto relazioni più o meno brevi ma ormai finite, come nel caso di Ilaria Sula o Giulia Cecchettin. E’ su questo punto che noi dovremmo interrogarci: perché giovani uomini non accettano il rifiuto o la fine di una relazione? Che cosa li spinge ad uccidere, a pensare “se non puoi essere mia non devi essere di nessuno?”.
E’ chiaro che in una società patriarcale la donna è vista e percepita come un’esclusiva proprietà e la negazione a intraprendere o a continuare un rapporto diventa per molti uomini inaccettabile. Ma il rifiuto, che sfocia nella violenza e nel femminicidio, è anche vissuto come un fallimento, specialmente dai più giovani e dai più fragili, e può avere un impatto significativo sulla loro autostima e lasciare spazio ad un senso di inadeguatezza personale sino a far diventare violento il rapporto con l’altro sesso.
Dall’altra parte le ragazze frequentemente sottovalutano i segni di un’eccessiva gelosia, di attenzioni soffocanti, di un continuo controllo sull’abbigliamento, sul trucco, sulle frequentazioni e le amicizie, indizi che fanno capire che una relazione non è sana, ma tossica; indizi che vengono troppo spesso scambiati per “amore”. Tutte queste ormai ben note analisi, non vengono prese in sufficiente considerazione dai decisori politici.
Ci accorgiamo di quanto sia importante a quell’età comprendere le emozioni, esprimere i sentimenti che fanno parte della vita sociale degli e delle adolescenti, insegnare che il rispetto per l’altro e per l’altra non è sintomo di debolezza, ma anzi di forza, tutte le volte che avviciniamo gli adolescenti, entriamo nelle classi per parlare con loro, e capiamo quanto sia fondamentale che qualcuno li ascolti e nello stesso tempo trovi il modo più adatto per dialogare con loro, far emergere le loro idee, il loro vissuto e risolvere le inevitabili contraddizioni di quell’età.
E’ ormai chiaro quanto sia essenziale che gli e le adolescenti si avvicinino al tema dell’affettività e della sessualità precocemente e che le relazioni che stabiliscono diventino per loro un esercizio in vista di legami più rilevanti e stabili.
SeNonOraQuando?Torino, come tante altre associazioni in tutta Italia, lo sperimenta ormai da 13 anni con un progetto dal titolo eloquente “Potere alla parola” che coinvolge ogni anno circa 400 ragazzi e ragazze del territorio e che si svolge nel corso di tutto l’anno scolastico per concludersi al Salone internazionale del libro che collabora a questa iniziativa
E’ una piccola goccia nell’oceano, come tante altre iniziative sporadiche da parte di singole e singoli insegnanti, associazioni o amministrazioni locali lungimiranti, consapevoli dell’assoluta necessità di affrontare questi temi. Ma sappiamo bene che servirebbe un’educazione all’affettività proposta in tutte le scuole a partire da quelle di primo grado, organica, strutturale, che preveda il coinvolgimento di diverse figure professionali competenti e adeguatamente formate. Ma tant’è, queste richieste e le norme contenute anche nella Convenzione di Istanbul, che è legge dello Stato, sono disattese.
Come ci ricorda il Rapporto Grevio 2024 coordinato da D.i.Re – Donne in Rete contro la violenza, e che ha visto, nella sua stesura, la collaborazione di 14 associazioni, la Direttiva Ministeriale “Educare alle Relazioni” e il Protocollo d’Intesa “Prevenzione e contrasto della violenza maschile nei confronti delle donne e della violenza domestica – Iniziative rivolte al mondo della scuola”, propongono un intervento limitato nel tempo, solo per gli Istituti di istruzione secondaria superiore, quasi esclusivamente nelle ore extrascolastiche, basato sull’adesione volontaria di docenti e classi, e senza fornire formazione agli stessi, se non per sessioni individuali incentrate esclusivamente su attività di animazione. Progetti che devono avere il consenso dei genitori e che sono extracurricolari.
Molto lontano da quello che sarebbe necessario per iniziare a produrre un cambiamento culturale che necessita sì di tempo per restituire risultati, ma che non potrà sicuramente produrli se si pensa di contrastare la violenza contro le donne e i femminicidi solo con misure securitarie, così come prevedono gli ultimi provvedimenti del governo o affermando, come fa il ministro della Giustizia, che il problema sta nei “comportamenti ormai radicati che riguardano giovani e adulti di etnie che magari non hanno la nostra sensibilità verso le donne“ dimostrando di non sapere quali siano le vere cause di questo fenomeno e di non conoscere i dati reali sugli autori dei femminicidi.
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